CHIESA RUPESTRE SANTA MARIA MATER DOMINI BORGO SAN LEONARDO GRAVINA DEL CASALE – GINOSA (TARANTO)
Inquadramento storico-artistico sull’apparato decorativo.
Considerazioni di carattere generale sullo stato di conservazione e sulle finalità dell’intervento su: dipinti murali, superfici lapidee decorate e paramento interno in materiale lapideo.
Oggetto di questo contributo scritto è l’intervento di restauro delle superfici interne della Chiesa rupestre Santa Maria Mater Domini nel Borgo di San Leonardo a Ginosa in provincia di Taranto, situata sul costone del versante occidentale della cosiddetta Gravina del Casale1.
Nella valutazione dello stato di conservazione delle superfici in esame, è stato utile partire da una visione più ampia che considerasse le evidenze dell’intero complesso architettonico che nasce evidentemente come luogo di culto ipogeo e si sviluppa successivamente in alzato fino allo stato attuale, con un avancorpo e una chiesa superiore (fig.1).

Conosciuta anche come San Leonardo Vecchio, la chiesa rupestre Santa Maria Mater Domini fu probabilmente, come detto, scavata in forma ipogea tra il XII e XIII sec. e successivamente ampliata con un avancorpo murario nel XVI sec. Nel 1728 la cripta è nominata tra le « extra vagantes cappellas » (il culto vi è quindi proibito) e verrà riaperta al culto nel 17642 dopo alcuni lavori, successivamente sarà intitolata a Santa Maria Mater 3 Domini , come riporta l’altare settecentesco recante la scritta in rilievo: M(aria) M(ater) D (omini).
La chiesa rupestre originaria è scavata nel masso tufaceo, 4 a pianta quadrangolare e copertura a capanna o carena (fig. 2), la zona absidale è rimarcata da un subsellia (un sedile che corre lungo la muratura) mentre a sinistra è scavato un piccolo ambiente adibito a sagrestia, incorniciato da un arco in fase successiva (fig. 3). L’altare nasconde un antico blocco, deturpato da un profondo taglio, che doveva essere l’altare originario (fig. 4).
1 D. Petrosino, Ginosa Contrade, strade e piazze di un paese antico, in Vestigia Temporis 2 Quaderni della Biblioteca Civica, Ginosa 2004.
2 P. Bozza, M. Capone, Le Chiese Rupestri di Ginosa, Ginosa 1991.
3 A. Miani, Ginosa e le sue condizioni sociali e materiali, Napoli 1878.
4 Catalogo ICCD scheda di catalogo di tipo A (bene architettonico) NCTC scheda 16192570; scheda di catalogo di tipo OA (opera d’arte) NCTN schede 16001192571 – 192576; cronologia secc. XIII-XVI.Catasto delle grotte e delle cavità artificiali della Puglia numero catasto PU CA 0284 col nome di Chiesa Rupestre di San Leonardo ad opera del Centro Altamurano di Ricerche Speleologiche 2012.



Le pareti della zona ipogea conservano scialbi e tracce forse più antiche di segni, graffiti e pitture. Tutti da indagare sono questi eventuali nuovi elementi sottostanti (anche se presenti solo in traccia insieme ai segni di lavorazione della pietra) e forse relativi alle fasi più antiche del manufatto architettonico (fig. 5).

Ancora dietro l’altare settecentesco, su quello che era l’altare medievale è raffigurata una tarda Deèsis col Cristo, fra la Vergine e San Giovanni Battista, che regge un libro con la mano sinistra e benedice, intorno presenta una cornice scolpita e dipinta, questo riportano i testi, purtroppo oggi è ancor meno leggibile la raffigurazione (fig 6). Al di sopra troviamo un cartiglio (fig. 7) con la scritta: A(nno) D(omini) 1764.


Abbiamo quindi l’indicazione dell’anno della riapertura al culto. Sulla destra, una coeva e malconcia pittura raffigurante la Buona Morte con Gesù, la Madonna e san Leonardo (la presenza del santo è tutta da verificare). Sulla stessa parete si notano a sinistra i resti di una composizione con impostazione simmetrica alla precedente (figg. 8 e 9).


La struttura rupestre conserva il prezioso affresco di San Nicola (figg. 10 e 11), in trono e benedicente, posto a guisa di pietra tombale con la scritta esegetica latina in due tondi S(ANCTUS) NICOLAUS.


L’opera è datata generalmente al XIII sec.4 ma può risalire alla prima metà del XIV sec. 5, denota infatti una qualità tecnica e stilistica riconoscibile in altri esempi di pittura rupestre del territorio. Si riconoscono similitudini nella costruzione della raffigurazione sia dal punto di vista della geometria, delle proporzioni, delle cornici fino anche nella cura dei dettagli ornati sui tessuti della veste, nell’uso di determinati pigmenti e nella tecnica finissima di stesura del tonachino sulla pietra.
Lo testimonia il fatto che nonostante le numerose vicissitudini, l’affresco ha tenacemente resistito a tagli e riusi, anche dei più deleteri (i vecchi abitanti del borgo raccontano che ci fu un tempo in cui la chiesa era adibita a stalla e la vasca che crea oggi la lastra di San Nicola, fu usata come mangiatoia per gli animali). Quello che è perduto è il volto del santo, forse volutamente deturpato, canuto, stempiato, con barba e capelli grigi, risponde ai caratteri tradizionali del vescovo di Myra. Fatta eccezione per i tratti somatici centrali, il resto della raffigurazione è recuperabile nella lettura con un intervento di integrazione pittorica virtuale che qui viene proposto e che è servito da base per uno studio sulla geometria nascosta nella struttura della rappresentazione, un gioco di ellissi e cerchi sono forse alla base di una costruzione armoniosissima e chiara (fig. 12).

Nell’ambito dei modelli artistici bizantini che determinano l’iconografia del santo troviamo qui elementi più rari e moderni. La struttura è imponente, raffigurata in una postura frontale, a figura intera, assisa in un trono dall’alto schienale, riccamente decorato da disegni geometrici e motivi floreali e perle.
Gli abiti episcopali sono quelli legati alla chiesa di Roma, indossa una casula rossa riccamente decorata a girali e un pallio bianco appoggiato a T sugli omeri, impreziosito da grandi croci nere (come era per l’omophorion del tipo a V). Le sue mani sono coperte da guanti bianchi ricamati (chirothecae: i guanti liturgici usati nel rito romano) e impreziositi da anelli, con la mano sinistra mostra il libro chiuso e benedice con la mano destra alzata.
L’epitrachelion, (simbolo del sacerdozio) ricamato e frangiato in ocra gialla compare sul campo blu intenso della veste che copre le ginocchia. Lo stesso blu intenso che fa da sfondo alla rappresentazione e che esalta i tondi diafani con la titolatura.
Probabilmente la lastra con l’affresco del santo fu tagliata e spostata dalla sua collocazione originale quando nel XVI secolo alla cripta ipogea fu innestato l’avancorpo in tufo, si potrebbe quindi ipotizzare che fosse pertinente alla parte antistante dell’architettura in negativo che costituisce la prima fase della chiesa. Meno probabile, è invece la provenienza della lastra da un’altra chiesa rupestre del territorio, anche se è possibile rilevare attinenze stilistiche nella resa pittorica che potrebbero far pensare alla stessa mano esecutrice, la qual cosa è tutta da verificare alla luce di studi, analisi e rilievi specifici.
La nuova aula con copertura a capanna e volta a botte ha nel colmo un festone, ai lati coppie di nicchie accolgono a sinistra il San Nicola e un altare laterale e a destra la porta d’accesso e una seconda oppure l’originale accesso tompagnato e rifinito all’interno con una tarda cornice lapidea stuccata a finto marmo ocra di scarsa fattura stilistica (fig. 13). Sulla parete sud, accanto alla porta d’entrata vi è un’acquasantiera ricavata nel masso ed una seconda piccola cavità.

Nel 1856 la cripta è appellata “grotta di San Leonardo”. 6 Tra il 1880 e 1890 viene costruita la chiesa superiore, consacrata alla Mater Domini, come la cripta inferiore, a devozione dei coniugi Vincenzo Pizzulli e Catalda Catarano7. A quest’epoca secondo testimonianze Francesco Mancini rifece l’altare della cripta. Nel 1930-1940 Giovanni Giannelli e Isabella Lorusso donano la statua/manichino di San Leonardo. Ad oggi la chiesa superiore rimane intitolata a San Leonardo.
5 D. Caragnano, L’iconografia di San Nicola nelle chiese rupestri pugliesi, in “MATHERA”, anno III n. 7, del 21 marzo 2019, pp. 21-29, Antros, Matera 2019.
6 G. Glionna, Monografia storico -statistica di Ginosa in il regno delle due Sicilie descritto e illustrato, Napoli 1856
7 La stessa donatrice della statua in cartapesta della Madonna con Banbino come riporta l’iscrizione sulla corona maggiore: a divozione di Catalda Catarano e benefattori.
Una tela tardo ottocentesca raffigurante la Madonna col Bambino è esposta sull’altare della chiesa superiore di San Leonardo, l’opera potrebbe aver avuto una collocazione anche momentanea nella chiesa inferiore, l’ipotesi oltre che per ragioni iconografiche potrebbe essere sostenuta da alcune analogie, le misure della tela infatti si incastonerebbero in almeno uno dei due altari (fig. 14).

Questo tipo di iconografia, dell’Eleolusa, è caratterizzata dall’enfasi del sentimento nello scambio di affetti fra Madre e Figlio e pone in evidenza l’umanità di Cristo. Sono stati introdotti alcuni cambiamenti più o meno vistosi rispetto al modello dell’Odigitria: le guance del bambino e della Madre si avvicinano fino a toccarsi, le due figure si scambiano bacio e carezze, la Madre tiene tra le mani il bambino, questi infine spinge l’affetto sino a cingere il collo della Madre col braccio, nel gesto umanissimo che tra la veste cerca il nutrimento del seno. Il termine “Eleousa”, letteralmente “della dolcezza” o “della tenerezza”, designa, appunto, l’atteggiamento amoroso tra Madre e Figlio, volto a provocare la pietà (dal greco eleos) e la misericordia del Figlio verso i fedeli. Il tipo mette, quindi, in rilievo l’affetto che lega Maria a Gesù in vista del bene da elargire ai fedeli.
Le storie delle due chiese, superiore e inferiore s’intrecciano e si mescolano in uno scambio di nomi e di culti, una costante caratterizza però la chiesa rupestre: nella sua storia si alternano periodi di apertura e chiusura al culto, passando da proprietà privata a ecclesiale e viceversa.
Anche oggi, pur non essendo stata mai sconsacrata, il culto è in qualche modo interdetto, le porte della chiesetta si riaprono solo in occasione della festa di San Leonardo. A chi come noi, capita di entrarvi per studio, si manifesta in tutta la sua spiritualità di luogo nascosto e custodito nei ricordi delle ultime donne che se ne prendevano cura quando li si celebrava messa.
Le mie valutazioni conservative, stilistiche e storico artistiche, partono dai sopralluoghi effettuati nella chiesa nei giorni successivi all’evento alluvionale che colpì il comune di Ginosa nell’Ottobre 2013. Si osservarono una serie di danni imputabili alle straordinarie precipitazioni registratesi in quei giorni.
La violenza, l’incessanza e la quantità straordinaria di acqua meteorica produsse o accentuò alcune lesioni sulle coperture della chiesa superiore che pregiudicarono oltre alla conservazione delle strutture murarie antiche, anche e soprattutto le superfici interne decorate e gli arredi sacri di pregio lì conservati.
Il complesso architettonico in questione era stato già oggetto di restauro nella seconda metà degli anni ‘90 e non versava quindi in stato di abbandono, ad oggi infatti, quei lavori hanno consentito di preservare l’opera e risultano del tutto funzionali a distanza di tempo. Si ritiene che l’aggravarsi della situazione conservativa sia maggiormente imputabile agli eccezionali eventi alluvionali di quegli anni. Si ha infatti notizia di interventi manutentivi necessari e urgenti effettuati sul lastricato del tetto della chiesa superiore di San Leonardo, successivi all’alluvione, che monitorati negli anni, fino ad oggi, risultano anch’essi ancora funzionali. Questo ci permette di considerare il complesso non a rischio imminente dal punto di vista delle strutture ma compromesso nelle superfici interne che portano i segni anche di questi ultimi accadimenti. Certamente in futuro andrà intrapreso un organico intervento sulle pareti esterne che ci offrono un altrettanto interessante stratigrafia muraria della quale si menziona adesso solo i pregevoli archetti pensili di tradizione lombarda residuo della torre campanaria.
Come si è detto la chiesa superiore dedicata a San Leonardo è la struttura più recente rispetto alla chiesa inferiore, per uso denominata cripta, cioè sulla più antica chiesa Mater Domini, si è originato il complesso fatto di architetture in positivo e in negativo tipiche della nostra cultura rupestre. I volumi architettonici sviluppano parte della lunghezza all’interno di una cavità artificiale sulla quale si erige la chiesa più moderna, mentre la parte edificata relativa all’ampliamento del XVI sec. si congiunge nella struttura muraria con la chiesa superiore, ed è proprio dove i due edifici si fondono nelle cuciture murarie dei corpi e del campanile, che si possono individuare i percorsi di percolazione delle acque meteoriche che attraverso micro-fessure giungono fino alla struttura più antica nel livello inferiore determinando così tutti quei fenomeni di degrado legati allo sviluppo di agenti biodeteriogeni (fig. 15).

laterale.
Una serie di fenomeni a catena che determinano quindi l’attacco biologico attivo, attraverso le infiltrazioni di acque meteoriche e la presenza di umidità; i fenomeni correlati all’evaporazione e migrazione dell’acqua presente nel materiale, conducono alla migrazione di sali portati in soluzione dall’acqua stessa che ha permeato la struttura lapidea (per natura composta da materiale poroso ad alto valore igroscopico quale è la roccia calcarea comunemente denominata tufo) causando infine tutti quei problemi che si riscontrano macroscopicamente sulle superfici della chiesa. Problemi che, analizzati con una campagna diagnostica preliminare, determinano il processo progettuale dell’intervento di restauro che tiene conto della visione generale degli elementi materici, architettonici, decorativi e conservativi nella quale l’analisi puntuale delle superfici e del loro degrado rappresenta appunto una fase determinante che investe non solo l’azione progettuale ma soprattutto accompagna la fase esecutiva dei lavori.
In questa fase progettuale abbiamo avuto anche il supporto di una recente tesi di laurea che ci offre un utile e ultimo studio effettuato sul complesso architettonico8 oltre che una base grafica di confronto per i rilievi effettuati durante gli anni di monitoraggio della chiesa.
Per quel che concerne nello specifico lo stato delle superfici interne, oggetto di questo contributo, si evidenziano due differenti gruppi tipologici di problematiche: relative alla chiesa superiore e a quella inferiore (dovute essenzialmente alla estremizzazione degli interventi precedenti sul bene culturale). Si può infatti facilmente osservare che le superfici interne della chiesa di San Leonardo conservano gli strati di scialbo relativi agli interventi manutentivi degli anni passati (quando cioè la chiesa era frequentata e imbiancata periodicamente), scialbi che hanno permesso di conservare negli strati sottostanti tracce delle coloriture originali facilmente rintracciabili con una campagna di saggi stratigrafici mirati. Diverso ed agli antipodi è la situazione della chiesa inferiore della Mater Domini, qui il paramento murario interno risulta privato della sua pelle originaria, si ipotizza che ciò sia dovuto ad un intervento di pulitura meccanica (forse una sabbiatura, posteriore al restauro degli anni ’90 e antecedente alla manutenzione del 2013) troppo aggressiva che ha eroso e consumato in taluni casi anche l’ornato architettonico con la definitiva perdita del modellato e dei dettagli di cordoli, modanature, peducci ecc., ne deriva oggi una superfice fragile e decoesa, interessata da fenomeni di polverizzazione, priva di protezione e maggiormente esposta ai fenomeni di degrado naturale della pietra (fig. 16).

La scabrosità e la porosità di queste superfici rendono il paramento murario altamente igroscopico oltre che più facilmente interessato da depositi di polvere e particellato, terreno fertile per futuri attacchi biodeteriogeni. La materia lapidea ha necessità di riacquisire quindi compattezza con un consolidamento mirato ed eventualmente una protezione che, attraverso le opportune provinature e test con materiali compatibili, restituisca una superfice sana, magari reintegrando l’azione consolidante e protettiva che aveva l’acqua o il latte di calce in passato.
8 “Il margine naturale della gravina di Ginosa: da ragione di Isolamento ad occasione di integrazione del quartiere di san Leonardo nella rete urbana ed extraurbana” di S. Bruno, Università degli studi della Basilicata, Dipartimento delle culture europee e del Mediterraneo: Architettura, Ambiente, Patrimoni Culturali cdl in Architettura 2019/2020. La tesi di Laurea in Urbanistica è stata recentemente e generosamente donata alla Biblioteca del Civica.
Quindi, mentre le superfici interne di San Leonardo sarebbero tutte da “scoprire”, quelle della Mater Domini sono scoperte e nude, tutte da proteggere con un intervento di consolidamento ed una calibrata e localizzata operazione di microstuccatura delle superfici lapidee che non pregiudichi però la lettura originaria del manufatto architettonico e restituisca un accettabile stato di conservazione del paramento murario e delle opere in pietra.
Viene naturale una considerazione importante: il restauro è una scienza in continua evoluzione e ciò che ieri sembrava una pratica comune e usuale di pulitura come la sabbiatura, oggi è considerato troppo aggressivo e irreversibile perché causa la perdita definitiva di importantissime informazioni sulla stratigrafia delle superfici originali e rimuove la pelle del manufatto esponendolo al degrado.
La pratica non è stata del tutto abbandonata ma si è evoluta e specializzata nelle attrezzature e nelle conoscenze dei restauratori che sono oggi in grado di calibrare per metodologia e materiale i risultati delle puliture (osservabili ad un livello di misura dello strato rimosso molto al di sotto di quanto si facesse in passato).
In realtà l’intero apparato decorativo della Mater Domini è frammentato e frammentario: lacerti di affreschi e di dipinti murali, risparmiati nelle zone dei due altari, ci raccontano le fasi della chiesa. Sono presenti dipinti murali che si differenziano per tecnica, datazione e tipologia di rappresentazione, tutto ciò influisce immancabilmente sullo stato di conservazione degli stessi con un ventaglio di problematiche che vanno da fenomeni di distacco, decoesione e polverizzazione dell’intonachino di supporto e/o della pellicola pitttorica che qui può essere realizzata a tempera, a fresco o in tecnica mista.
Importanti lacune non permettono di leggere completamente il racconto iconografico e le rappresentazioni in ornato, ed è scopo di questo intervento evidenziarne il più possibile la lettura, mettendo in luce tutti quei dettagli che ci potranno raccontare di più di questo apparato decorativo quasi perduto.
Tra le opere più antiche merita notevole attenzione l’intervento sull’affresco che rappresenta San Nicola, interessato da numerosissime lacune e piccole mancanze che si propone di integrare, come prassi, con tecnica riconoscibile e reversibile, e che qui si presenta in una proposta di integrazione pittorica virtuale nelle pagine a seguire (fig. 17).

Si potrà inoltre valutare in corso d’opera con il funzionario preposto per la tutela dalla Soprintendenza, se ci sono gli elementi per svincolare la lastra lapidea del santo e collocarla in posizione eretta, in questo senso l’intervento di restauro ci permetterà forse di acquisire più elementi sulla collocazione odierna della lastra e sulla sua provenienza.
Altra situazione abbastanza complessa e problematica è quella della rappresentazione della Deesis nella parete di fondo dell’altare maggiore. Incorniciata da modanatura modellata in pietra in pessimo stato di conservazione e più avanti dall’altare settecentesco, la rappresentazione risulta ormai quasi illeggibile a causa di efflorescenze, distacchi, decoesione e polverizzazione sia del supporto che della pellicola oltre che della cornice lapidea stessa e con conseguente perdita, mancanze e lacune dell’opera complessiva.
I due riquadri ai lati dell’altare sono tutti da indagare per quel che concerne la tecnica esecutiva, il racconto iconografico e le eventuali manomissioni nei tentativi di ripristini passati.
Si intuisce bene la presenza di materiali inidonei che entrano in conflitto con quelli originali e che ne hanno accelerato il degrado (spesso assistiamo a interventi operati da artisti o manutentori locali senza conoscenze specifiche che inconsapevolmente aggiungono materiali dannosi o rimuovono parti originali ammalorate che non sono in grado di conservare, il danno che ne consegue è di facile stima!).
Sono evidenti invece gli schizzi di materiali, malta o boiacca moderna residuo degli interventi manutentivi sulla parete di fondo a est che hanno forse interessato la decorazione settecentesca dell’altare maggiore, anch’essa ridotta oggi in forma frammentaria a causa di mancanze e tagli per l’adeguamento liturgico sull’altare.
L’altare di sinistra presenta invece altro tipo di decorazione, resa con tecnica pittorica più recente. La decorazione è rimasta anch’essa in forma di lacerto nel sottarco della nicchia e nella lunetta superiore, vi troviamo un festone che si dipana da un vaso, riquadri e motivi anche a stencil in basso, che ci raccontano una successione di ripristini riscontrabili e leggibili anche sugli stessi altari in pietra scolpita ancora ricoperti da strati di scialbi e residui di coloriture tarde e inorganiche (sia dal punto di vista artistico che nel quadro del contesto decorativo).
Stesso dicasi per la nicchia posta di fianco al portoncino d’entrata, evidente tompagnatura tarda, rifinita internamente con cornici lapidee frammentarie e decorate a finto marmo color ocra con tecnica non pregevole dal punto di vista stilistico.
L’altare maggiore, anch’esso in pessimo stato di conservazione, risulta interessato, oltre che da una successione di strati di calce che ne offuscano il modellato, da fenomeni di decoesione e polverizzazione, patine biologiche e ridipinture con vernici inidonee sulla base.
Le pareti della zona ipogeo conservano scialbi e tracce (forse più antiche) di segni, graffiti e pitture. Sarà importante quindi calibrare gli interventi di pulitura in queste zone, in funzione dell’indagine di questi e di eventuali nuovi elementi pittorici sottostanti anche se presenti solo in traccia (relativi cioè alle fasi più antiche del manufatto).
E’ noto, in questi luoghi, dalle testimonianze orali raccolte nelle interviste ai frequentatori passati della chiesa e ai vecchi abitanti del borgo e dall’esperienza dell’intervento di restauro del 1996 9, che prima di allora, la chiesa ha vissuto una lunga fase di abbandono e riuso antropico inappropriato che l’ha vista degradata a stalla e pollaio, priva di porte e finestre, con tetto e pavimento malconcio. In quella fase di vita della cripta molto probabilmente si è perso! Fu solo grazie all’intervento del 1996 che si cristallizzò (con la sistemazione del tetto, del pavimento e la posa degli infissi in legno) la situazione conservativa dei lacerti dell’apparato decorativo sopravvissuto.
La zona di accesso al sito è stata poi ancora ricettacolo di frequentazioni improprie e abbandono di rifiuti anche di natura delinquenziale nelle cavità attigue, tanto fu che si rese necessaria l’erezione di un muro dotato di cancello all’imbocco della scalinata che scende verso la chiesetta.
Nei carteggi e documenti relativi all’intervento di manutenzione di quegli anni, fu indicato dall’ente di tutela (Soprintendenza ai Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici di Bari) la necessità già allora di intervenire sulle superfici affrescate. Questo progetto prosegue idealmente l’azione di tutela promossa allora con l’auspicio di riprendere il percorso di rinascita di un sito e un borgo antico perfetto esempio della vita in gravina, della cultura rupestre e di quella stratificazione storica e culturale che contraddistingue il nostro territorio tanto ricco quanto bisognoso di essere custodito, conosciuto e valorizzato.
L’auspicio di rinascenza parte anche da questo tassello urbano, paesaggistico, artistico e spirituale e investe tutta la comunità che vorrà uscire rinnovata e consapevole dal terribile periodo pandemico e offrire agli occhi del visitatore un nuovo e dimenticato gioiello artistico.
9 Restauro promosso da Legambiente circolo “Giano” Ginosa e dall’allora ispettore onorario Pietro di Canio a firma dell’Arch. Cosimo Conte, trasmesso dal Comune di Ginosa e autorizzato della Soprintendenza ai Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici di Bari con Protocollo n. 1541 del 11 marzo 1996 oggetto: “Ginosa (TA) Lavori di manutenzione straordinaria della chiesa di San Leonardo” (erroneamente chiamata S. Antonio nel documento corretto a mano) nel progetto la chiesa Mater Domini viene chiamata “Chiesa rupestre di San Leonardo”.
Dott.ssa Isabella Piccolo
Restauratrice di beni culturali